UNA
COLLEZIONE AL SERVIZIO DELL'ARTE
Ogni
collezione è il frutto di una singolare avventura, quella di un
uomo e delle sue scoperte, ma anche delle sue convinzioni, poichè
il piacere solitario dell'esteta non saprebbe da solo spiegare i motivi
che condussero Oscar Ghez, per circa cinquant'anni, a mettere insieme
una collezione di diverse migliaia di opere che ricoprono un periodo ricco
e fecondo della storia dell'arte: gli anni dal 1870 al 1950.
Il sogno legittimo del collezionista, quello di condividere con altri
la sua passione, di mostrare con fierezza la propria collezione, non richiede
necessariamente la creazione e il mantenimento di un museo. La creazione
di un museo, al contrario, rappresenta un vincolo finanziario che si frappone
per forza di cose all'arricchimento della collezione stessa.
Nonostante ciò, nel 1968, Oscar Ghez intraprese quest'avventura
aprendo al pubblico la sua collezione nelle sale espositive del Petit
Palais di Ginevra.
Si trattava non tanto di donare alla sua collezione un'eternità
che la consacrasse come un'opera archiviata, rendendo così omaggio
alla sua perspicacia, quanto di concedersi i mezzi per esser protagonista
nel mondo dell'arte. Per Oscar Ghez questo museo doveva essere lo strumento
più efficace per prolungare e dare un senso alle sue scelte.
Mettere in luce le opere e valorizzare artisti ingiustamente ignorati,
portarono il museo ad organizzare delle esposizioni temporanee. Così
nel 1994 Oscar Ghez poteva congratularsi con se stesso per aver portato
ad una migliore conoscenza e ad una rivalutazione le opere di un gran
numero di artisti: grazie a più di 300 mostre, realizzate in 25
anni, e grazie agli innumerevoli contributi che queste opere hanno dato
alle esposizioni organizzate dai più importanti musei del mondo.
Se è impossibile, in questo contesto, fornire una lista che renda
fedelmente omaggio alla ricchezza della collezione, certi nomi si impongono
per importanza, qualità e numero di opere: Guillamin, Caillebotte,
Van Dongen, Valtat, Jean Puy, Foujita, Kisling, Steinlen, Mané
Katz, Papazoff, Nicolas Tarkhoff, Maria Blanchard, e ancora Ferdinand
Desnos. Questo elenco dimostra come il collezionista fosse spinto da una
grande curiosità, da una notevole indipendenza di spirito e da
un'impressionante fermezza di giudizio. Oscar Ghez non voleva costituire
una collezione di museo, concepito come un'istituzione pubblica che concentra
spesso i suoi sforzi su dei nomi storicamente incontestabili affermando
una visione ideale delle diverse estetiche di un particolare periodo.
Al contrario Oscar Ghez si indignava nel vedere certe opere trascurate.
Egli voleva rivalutarle. Questo atteggiamento da appassionato, che sa
guardare senza farsi influenzare dai pregiudizi o da un eccessivo senso
di cronologia storica, gli permise spesso di acquisire le opere prima
che il mercato se ne interessasse e gli attribuisse dei valori considerevoli.
Questo fu per lui fonte di grande orgoglio. Nel suo caso, questo orgoglio
era confortato dal ruolo che egli pretendeva di giocare nella riscoperta
di tale o tal altro artista. Mi ricordo come, in occasione del 150°
anniversario della nascita di Armand Guillaumin, egli si vantasse - con
elegante modestia - di essere stato l'iniziatore di molte mostre dedicate
a quest'artista impressionista, che tanto amava Vincent Van Gogh.
Le opere raccolte da Oscar Ghez per il suo museo del Petit Palais di Ginevra
costituiscono ben più di una semplice collezione privata, esse
delineano il volto di quest'avventura, sono la testimonianza di una vita
fatta di innamoramenti e di passioni. Ed è proprio per questo che
la collezione di Oscar Ghez presenta numerosi aspetti insoliti. Formulare
un giudizio storico o da conservatore di museo su questa collezione significherebbe
probabilmente commettere un'ingiustizia ed un controsenso, poichè
i suoi lati deboli sono indissociabili dalle sue qualità. Sarebbe
ingiusto concentrarsi sulle lacune, quando la collezione ha saputo rispettare
un riferimento storico - la nascita dell'arte moderna - così ricco
di idee innovative. Sono proprio queste premesse che ne alimentano l'originalità
e l'interesse, questa volontà di correggere le numerose ingiustizie
della storia dell'arte. Alcune opere di maggior rilievo della collezione
che, come Le pont de l'Europe di Caillebotte, suscitano la fervida invidia
dei più grandi musei, furono acquisiti proprio in ragione del fatto
che questi stessi musei li avevano ignorati. Le pont de l'Europe sarebbe
apparso più tardi sulla copertina del catalogo della grande retrospettiva
dedicata all'artista, organizzata dal Musèe d'Orsay e dall'Art
Institute di Chicago nel 1994: un onore meritato per l'attento collezionista.
Commentare e presentare questa collezione significa compiere delle scelte,
enunciare dei collegamenti tra i periodi storici, i movimenti, raggruppare
gli artisti all'interno di ampie categorie estetiche. Oscar Ghez segue
le grandi strade della storia, della grande storia dell'arte, ma anche
le stradine più brevi e contorte delle amicizie, degli uomini e
di tutto ciò che compone la vita di un periodo artistico. Egli
muove i fili, si diverte a ricostruire i legami interrotti: ogni scoperta
porta a delle promesse e, immediatamente, l'interesse per un artista si
estende al suo contesto intellettuale.
L'uso di raggruppare le opere per famiglie storiche, se da un lato offre
la garanzia di un metodo razionale, dall'altro ha il grosso inconveniente
di ignorare la complessità della realtà, di cancellarne
la ricchezza e, privilegiando solo certi aspetti, di scartare tutte quelle
forme di espressione che non siano utili alla sua dimostrazione. Ad esempio,
Raoul Dufy è considerato per il suo periodo un fauve ma quando
dipinge Le marché de Marseille ad inizio secolo, realizza un'opera
di grande qualità che non è ancora fauve. Se Oscar Ghez
avesse costruito metodicamente la sua collezione, nello stesso modo un
cui si illustra una storia dell'arte a vocazione enciclopedica, naturalmente
riduttiva nel suo essere selettiva, solamente un' opera fauve di Dufy
sarebbe entrata nella collezione del Petit Palais. E potremmo portare
numerosi altri esempi, come il magnifico pastello di Théo Van Rysselberghe
realizzato molto dopo che l'artista aveva rinunciato a "puntinare".
L'attrazione principale della collezione del Petit Palais di Ginevra consiste
nel far emergere l'indipendenza di spirito che accompagnò Oscar
Ghez nelle sue scelte. Egli era particolarmente attento a far conservare
al suo museo "un'atmosfera di intimità propria di una casa
privata". Non si trattava della stessa atmosfera che aveva caratterizzato
le grandi case segnate da un'epoca particolare o dal culto di una personalità
dominante, attraverso la coerenza decorativa o la presenza di ricordi,
bensì aleggiava un sentimento estraneo alle grandi istituzioni,
caratterizzate dallo spirito scientifico, che conduceva, inevitabilmente,
ad una disumanizzazione delle opere allineate in una sequenza di possibilità
formali. Egli desiderava esporre in maniera tale da suscitare la sensazione
che i quadri appesi al muro fossero lì grazie ad un rapporto di
intima complicità con l'arte.
Una casa antica - pur essendo oggetto di una risistemazione museografica
- vincola, con la sua architettura, alla disposizione delle opere. Non
si può imporre un approccio autoritario al percorso, né
renderlo dimostrativo e lineare. Essa si prende gioco della storia dell'arte
e accosta, a nostra insaputa, delle opere che la nostra comprensione metodica,
fatta di sequenze storiche, avrebbe isolato, restituendo al secolo coerenza
e risvegliando discorsi a lungo interrotti.
Se l'esposizione è costretta tra le pareti di questo magnifico
palazzo, Oscar Ghez non si è mai adagiato in una compiaciuta soddisfazione.
Gli innumerevoli movimenti delle opere, prestate ai quattro angoli del
pianeta, così come l'arrivo degli ultimi acquisti, rimettono continuamente
in discussione l'alchimia degli accostamenti, ridisegnando nuove e fruttuose
prospettive, consentendo di consacrare temporaneamente a questo o a quell'artista
delle piccole esposizioni personali di opere abitualmente relegate tra
le riserve.
Se questa collezione possiede i tratti singolari che gli ha conferito
il suo unico autore, essa è articolata intorno a delle forti linee
direttrici dalle quali emergono delle sezioni principali. Si potrà
così constatare che la presenza dell' Ecole de Paris è dominante,
sia per numero che per importanza delle opere, tanto che l'arte non-figurativa
- fatta eccezione per certi lavori di Papazoff - è assente.
La sezione dedicata agli impressionisti, che apre storicamente la collezione
del Petit Palais, è dominata da molti dipinti di Caillebotte, tra
i quali il prestigioso Le pont de l'Europe (1876), di cui abbiamo parlato
in precedenza. Altre opere rappresentano incontestabilmente i capolavori
dei loro autori: di Frédéric Bazille, Réunion de
famille sur la Terrasse de Méric (1867), appartenente ai primi
anni dell'Impressionismo o ancora, di Marie Bracquemond, Sur la Terrasse
à Sèvres avec Fantin-Latour, una delle sue opere più
celebri.
Nuove sezioni si affermano per la loro considerevole ricchezza, senza
tradire i tratti caratteristici della collezione. Quella dedicata al neo-impressionismo
è esemplare a questo proposito. Questo movimento, per lungo tempo
dimenticato dai musei, è stato solamente oggetto di una rara letteratura
erudita, in paragone a quella consacrata, a partire dall'inizio del secolo,
alla generazione degli impressionisti. Sicuramente i suoi rappresentanti
più illustri come Georges Seurat e Paul Signac, ben conosciuti
dal grande pubblico, sono stati oggetto di molte pubblicazioni ma tanti
altri artisti, appartenenti a questo movimento, hanno dovuto aspettare
gli ultimi dieci anni del XX secolo per vedersi finalmente consacrati
in opere letterarie monografiche. Malgrado la mancanza di opere di Seurat,
la collezione neo-impressionista del Petit Palais costituisce un insieme
importante per la conoscenza di questa tappa essenziale della nascita
dell'arte moderna internazionale. Se Théo Van Rysselberghe, una
delle maggiori figure dell'arte belga nella svolta del secolo passato,
è il meglio rappresentato, Charles Angrand, vicino a Seurat, emerge
con uno dei capolavori del movimento, La Seine à l'Aube (1889)
che sembra dominare sull'intera raccolta. Anche Henri-Edmond Cross è
presente con opere di eccezionale qualità: La Marine au Cyprès
(1896) rivela all'interno del movimento una nuova aspirazione simbolista,
mentre Le Baigneur à Saint-Tropez (1893) annuncia in modo premonitore,
attraverso gli scorci sintetici ed espressivi del viso, gli elementi caratteristici
del fauvismo con almeno dodici anni d'anticipo.
Maximilien Luce emerge con una delle sue migliori opere divisioniste,
Le bord de mer en Normandie (1893) che sottomette l'audacia cromatica
all'equilibrio dell'intera composizione. Ancora una volta, la collezione
del Petit Palais propone delle opere rare quali il magnifico Le retour
du berger, di Heymans, probabilmente realizzato all'inizio degli anni
1890 quando l'artista belga cercava d'interpretare liberamente la tecnica
dei neo-impressionisti francesi. Anche altri pittori, troppe volte sfortunatamente
assenti dalle collezioni pubbliche dedicate all'arte francese, compaiono
in questa raccolta: Albert Dubois-Pillet, Louis Hayet, Léo Gausson,
Achille Laugé, sono alcuni di questi artisti rappresentati con
delle opere significative di cui le diversità di espressione si
affermarono in seno al movimento.
Della stessa generazione dei neo-impressionisti, i post-impressionisti
espongono opere che, per tecnica, percorrono una diversa strada nella
quale la pittura, senza essere totalmente indifferente alla dimensione
sistematica e positivista del neo-impressionismo, si fa più sintetica
integrando ormai delle influenze "primitive". Dal gruppo di
Pont-Aven ai nabis, da Emile Bernard e Paul Sérusier a Maurice
Denis e Ker Xavier Roussel o ancora Félix Vallotton, la collezione
svela in seguito un numero di opere di grandi nomi che diedero al Salone
degli Indipendenti, tra il 1884 e il 1914, quel tocco di nobiltà.
Passiamo poi, tanto logicamente quanto quasi insensibilmente, agli artisti
della generazione successiva. Ma se i fauves, così battezzati da
Louis Vauxelles in occasione del Salone d'Autunno del 1905, Dufy, Derain,
Friez, Manguin, Jean Puy, Valtat, Van Dongen sono rappresentati con delle
opere molto spesso ragguardevoli - Kees Van Dongen e Louis Valtat in particolar
modo - queste, a causa dell'eterogeneità delle date di realizzazione,
non possono tuttavia pretendere di costituire, così come per la
raccolta dei neo-impressionisti, una sezione specificatamente dedicata
al fauvismo.
L'Ecole de Paris costituisce invero il cuore della collezione. La sua
ricchezza è tanto considerevole che è difficile pretendere
di poterne apprezzare una visione d'insieme in maniera sintetica. La debole
rappresentazione di cubisti - malgrado qualche opera magistrale di André
Lothe, di Léopold Survage o di Jean Metzinger - e, come già
sottolineato, la scarsa presenza dell'arte astratta e non-figurativa,
chiarificano le scelte di Oscar Ghez. Così, egli sembra coerente,
avendo privilegiato i fauves "più espressionisti" (Van
Dongen, Valtat,
) a scapito di artisti più sensibili alla
"costruzione cézanniana", Braque o Matisse; egli preferì
il cubismo di ritorno all'ordine figurativo, che era comunque fedele all'estetica
del cubismo come quello di André Lothe, o più particolarmente
sotto l'influenza di Juan Gris o di Maria Blanchard oppure, al contrario,
opere che ne traevano soltanto una lontana ispirazione come nel quadro
Les deux Amies (1923) di Tamara de Lempicka.
Fujita, Kisling, Chagall e Soutine dominano la parte della collezione
consacrata all' Ecole de Paris. Le opere di Fujita Le Nu au chat (1924),
Lupanar à Montparnasse (1928), La dompteuse et le lion (1930) sono
dei capolavori veramente esemplari dell'arte dell'artista giapponese.
Al fianco di questi maestri dell' Ecole de Paris, c'è una piccola
sezione dedicata ai primitivi del XX secolo, i naïfs. Qualcuno dei
lavori più belli di Ferdinand Desnos affiancano le opere di Camille
Bombois e di André Bauchant, dei veri maestri dell'arte naïf
che furono a lungo conosciuti ed apprezzati in un circolo troppo ristretto
di esperti.
Montmarte e Montparnasse furono le due acropoli di questa unica ed incredibile
avventura. Torre di Babele dell'arte, questa convergenza della creatività
in una città, aveva certamente alcuni aspetti positivi e felici:
il formidabile prestigio dell'arte francese al passaggio da un secolo
all'altro. Ma sfortunatamente questa Torre di Babele dell'arte creò
un'accelerazione nei suoi movimenti, in una disperata ricerca di libertà,
che presagiva i tragici avvenimenti che stavano rannuvolando i cieli d'Europa
e presto dell'umanità intera. Oscar Ghez si ricordava di questa
comunione internazionale che animava gli artisti riuniti a Parigi fino
alla Seconda Guerra Mondiale e desiderava scongiurare lo scontro conflittuale
tra l'ascesa dei totalitarismi e l'aspirazione utopica e libertaria degli
artisti, e sognava di mettere in epigrafe alla sua collezione la frase:
" L'Arte al servizio della Pace".
Christophe
Duvivier
Direttore del Museo di Pontoise
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