OIntervista alla moglie di Oscar Ghez

Nicole Ghez: 28 anni di amore e di arte con Oscar Ghez

Daniela Magnetti: Come ha conosciuto Oscar Ghez?
Nicole Ghez: Era il 1951, avevo 17 anni ed ero in vacanza con la mia famiglia in un centro di cura termale. A quell'epoca era normale che una ragazza accompagnasse i suoi genitori. A differenza di oggi, si viveva una vera e propria "vita d'hotel": la televisione non c'era e la gente si trovava nei saloni degli alberghi a conversare, a giocare a carte. Oscar Ghez, che all'epoca era giovane, sposato e con un figlio era lì, insieme a sua madre e sua sorella. Faceva parte del nostro gruppo di amici: insieme giocavamo a tennis, andavamo a fare dei pic-nic e lunghe passeggiate. Oscar Ghez era un uomo estremamente affascinante, era un seduttore, sapeva intrattenere le donne e questo lo possono confermare tutti quelli che l'hanno conosciuto perché queste caratteristiche lo hanno accompagnato anche nella vecchiaia. Aveva un qualcosa, un fascino innato: non lo cercava, era così. Quando parlava, si esprimeva molto bene e poteva intavolare qualunque conversazione; era un uomo molto interessante e soggiogava tutti quelli che gli stavano intorno. Immaginatevi cosa significò, per una ragazzina di 17 anni, incontrare questo uomo seducente, charmeur et charmant. Me ne innamorai! Bisogna dire che anche per lui fu la stessa cosa! Abbiamo avuto una relazione amorosa platonica molto molto intensa. Io sapevo che era sposato, che aveva una moglie che all'epoca era negli Stati Uniti e che aveva un figlio. Poi la vita ci ha separati, io ho continuato i miei studi. Lui, di tanto in tanto, veniva a Parigi, telefonava sempre e veniva a cenare a casa nostra invitato dai miei genitori. Poi sua moglie si è ammalata ed è morta…

D.M.: Quando ha sposato Oscar Ghez il Petit Palais era già nato?
N.G.: Ho sposato mio marito nell'aprile del 1971, due anni dopo l'apertura del Petit Palais.

D.M.: Dunque ha sposato un grande collezionista?
N.G.: Si. Avevo fatto degli studi alla scuola del Louvre, avevo visitato mostre e musei ed ero molto interessata all'arte. Oscar Ghez mi chiese subito di collaborare con lui nella gestione del Petit Palais. Accattai con immensa gioia. Dal giorno in cui mi sposai e misi piede al Petit Palais non ne sono più uscita. Parlavamo del Petit Palais quando ci svegliavamo al mattino, ne parlavamo apranzo, ne parlavamo al pomeriggio, ne parlavamo alla sera quando andavamo a dormire. Ricevevamo moltissime riviste di arte a cui eravamo abbonati ma, durante la giornata non avevamo tempo di leggerle. Allora lo facevamo alla sera e fino a mezzanotte il Petit Palais continuava ad essere in mezzo a noi, nel nostro letto, ma questo non ci preoccupava perché era la nostra passione comune. Ogni tanto devo ammettere che ero un po' stufa e allora partivamo per un week-end o per una settimana e mio marito riusciva a dimenticarlo. Ero io che gli dicevo: "Ma non telefoni al Petit Palais?". Lui era capace di non farlo, per tutta la durata della vacanza.

D.M. : Che cos'era il Petit Palais per Oscar Ghez?
N.G.: Era tutta la sua vita. Era stato un industriale. Amava dire di aver avuto tre vite. Era laureato in scienze economiche. Viveva in Italia. Era mezzo italiano e mezzo tunisino. Sua madre era fiorentina, di Castelnuovo, e suo padre era di Tunisi. Mio marito è nato in Tunisia, a Sousse. Suo nonno materno era chirurgo del Re Vittorio Emanuele II e in seguito fu chiamato ad essere il medico del Bed tunisino e fu così che sua figlia lo seguì in Tunisia e conobbe e sposò Angelo Ghez. Ma la moglie, di salute cagionevole, non resistette a lungo in quel paese e si trasferirono dapprima a Marsiglia e poi a Roma. In quel periodo Oscar Ghez era un ragazzino e, insieme a suo padre e a suo fratello, aprirono, nei dintorni di Roma, una fabbrica di lavorazione della gomma che andò molto bene fino all'inizio della guerra. Erano ebrei e nel 1939, a seguito della persecuzione razziale, molti ebrei lasciarono Roma. Mio marito era un grande diplomatico e un bravo negoziatore e riuscì a trattare con la Pirelli. Fece uno scambio: lasciò alla Pirelli le sue fabbriche, che erano abbastanza importanti per interessarla, e prese in cambio alcune fabbriche Pirelli vicino a Lione. Ma, nel 1941, dovette lasciare la Francia con tutta la sua famiglia e trasferirsi a New York. Là mio marito, che non poteva rimanere senza far nulla, offrì i suoi servizi al Pentagono. Era consigliere per gli affari italiani. Io credo che abbia fatto un buon lavoro tanto che, più tardi, ricevette l'onorificenza di Commendatore della Repubblica Italiana. Dunque, riassumendo, la sua prima vita fu da industriale, la sua seconda vita fu diplomatica al Pentagono. Nel 1946, quando lasciò gli Stati Uniti e tornò in Francia dove riprese la direzione delle sua fabbriche, fino a quando, nel 1955, dopo la morte di suo fratello, le vendette. Aveva già iniziato a collezionare pietre dure, avori, ogni sorta di oggetti cinesi e asiatici e qualche quadro. Cominciava a frequentare gli antiquari. Amava dire che il suo primo quadro fu il piccolo 14 Luglio di Steinlen, acquistato da un antiquario, e per il quale ebbe un vero e proprio colpo di fulmine! Penso sia stato lo sblocco di una passione. A quell'epoca la pittura non era il suo campo e acquistava quello che gli piaceva. Andava spesso a Parigi, durante i week-end per incontrare suo figlio Claude. Frequentava i mercati delle pulci, le gallerie di Montmartre e là conobbe delle persone che lo consigliarono e lo orientarono. Lui era molto curioso, amava leggere e documentarsi. Bisogna dire che negli anni '60 i quadri non avevano i prezzi di oggi. Solo gli impressionisti avevano già un certo prezzo, anche se nulla in confronto al valore odierno. Gli estimatori dei post-impressionisti erano pochi. All'epoca non c'erano tutte le retrospettive che ci sono oggi e neppure i grandi libri d'arte che divulgavano la conoscenza di questi pittori. Allora si era agli albori. Mio marito cominciò, consigliato soprattutto dai galleristi di Montmartre ad acquistare dei post-impressionisti: puntinisti, nabis… Charles Angrand, Cross… e acquistò soprattutto direttamente dai pittori o dalle loro famiglie. Conobbe la signora Valtat, conobbe Foujita, Mané Katz. Bisogna dire che molti di loro erano ancora in vita e se non lo erano mio marito comprava dalle vedove, come madame Marquet o dai figli. Conobbe Van Dongen e sua moglie dalla quale ha comprato molti quadri.


D.M.: Quando ha conosciuto suo marito parte della collezione era già costituita…
N.G.: Si, aveva già comprato molto ma vi posso dire che comprò per tutta la sua vita. Non posso dirvi la data dell'ultimo acquisto ma sono certa che sia avvenuto non tanto prima della sua morte.

D.M.: Ha contribuito alla scelta degli acquisti?
N.G.: Si. Quando sfogliavo i cataloghi delle aste se vedevo un quadro che pensavo potesse interessargli glielo facevo vedere. Mio marito voleva continuamente ingrandire la collezione con le opere degli artisti che già ne facevano parte. Per esempio ricercava molto le opere di Guillaumin e dei puntinisti. Da una parte gli sottoponevo opere nuove da acquistare e dall'altra, quando acquistava troppi quadri, lo sgridavo dicendogli: "Hai migliaia e migliaia di quadri e non sappiamo più dove metterli!". Ha acquistato e venduto moltissimo. Vendeva quelli meno importanti per acquistare quelli di qualità più elevata al fine di migliorare la collezione.

D.M.: E' vero che suo marito conosceva la storia, gli aneddoti di tutte le opere che aveva acquistato?
N.G.: Si certamente! Ci sono molti aneddoti che vi potrei raccontare. Ce n'è uno che può spiegare bene il grande intuito per l'arte di Oscar Ghez. Spesso i pittori hanno prodotto molto e il gran numero delle opere non consentiva loro di ricordarsele tutte. Un giorno che mio marito era a Zurigo da un mercante d'arte, vide un quadro del quale riconobbe lo stile del pittore svizzero Wilhelm Gimmi, di cui aveva già altre opere, e lo acquistò. Siccome questo quadro era molto diverso dagli altri decise di andare a trovare il pittore, all'epoca ancora in vita. Contattò il pittore e gli preannunciò la sua visita che aveva come fine quello di far autenticare il quadro appena acquistato. Si recò dunque a casa Gimmi e, quando la moglie del pittore vide l'opera gli disse: "Come avete potuto comprare questo quadro e credere che sia stato fatto da mio marito? Lui non ha mai dipinto così." Mio marito lasciò il quadro in un angolo, e prese un aperitivo con i coniugi Gimmi. A un certo punto il pittore divenne tutto rosso e disse: "Finalmente lo riconosco. L'ho dipinto in riva al lago Geronte." Sua moglie incredula gli disse: "Sei tu che hai dipinto questo?". "Si, sono io, lo riconosco." E lo autentificò. Se il pittore fosse deceduto, con la dichiarazione di diniego della moglie, quel quadro non sarebbe mai stato attribuito a Gimmi
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D.M.: C'è un quadro che suo marito amava in particolar modo?
N.G.: E' difficile da dire, perché ogni quadro ha la sua particolarità. Io credo che abbia amato tutti i suoi quadri.

D.M.: C'è un quadro della collezione che non avrebbe mai voluto vendere?
N.G.: Ce ne sono molti di cui mio marito diceva di non volersi privare. Quando vendeva un quadro gli si stringeva il cuore. Non importa quale fosse. Tutti i suoi quadri erano suoi figli e quando ne vendeva uno lo vendeva solo per poter finanziare il Petit Palais. Il Petit Palais non ha mai ricevuto alcun finanziamento, né dalla città né dallo Stato. Dire che mio marito amasse un quadro in particolare è molto difficile. Senz'altro amava molto il piccolo Steinlen 14 Luglio, che considerava il promotore dell'intera collezione. Apprezzava altrettanto Le pont de l'Europe di Caillebotte che, quando l'aveva comprato, era quasi sconosciuto come pittore. C'erano inoltre, molti quadri che amava, poiché ne aveva conosciuto gli artefici. E' difficile dire quale gli stesse più a cuore.

D.M.: Che cosa significa essere la compagna di un collezionista?
N.G.: Non posso parlare per le altre donne, posso parlare soltanto per me, compagna di Oscar Ghez. Significa aver condiviso con lui, a tempo pieno e totalmente, la sua passione. Questo è tutto quello che posso dire.

D.M.: Come spiega la scelta del motto: "L'art au service de la Paix"?
N.G.: Ginevra è una città internazionale, mio marito sosteneva che l'arte non dovesse avere delle frontiere. Ospitavamo al Petit Palais delle esposizioni di pittori che venivano da tutto il mondo, senza fare alcuna distinzione di nazionalità, di razza o di religione. Durante il venticinquesimo anniversario delle Nazioni Unite organizzammo un'esposizione speciale al Petit Palais e fu lì che, per la prima volta, si coniò il mottoL'art au service de la Paix.